SAKAMOTO RYUICHI: tra Zen e Rinascimento


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Sakamoto Ryuichi è probabilmente il musicista e compositore giapponese più famoso al mondo. Dalla seconda metà degli anni ’70 in poi, spazierà dalla musica classica a quella elettronica, dal minimalismo più etereo al pop più bizzarro. Giustamente definito come “uomo rinascimentale”, la sua carriera prende molteplici diramazioni: è infatti anche attore, artista multimediale, produttore musicale e fondatore di una casa discografica indipendente che offre un’alternativa alle regole del copyright, la Creative Commons. 

Nato a Tokyo il 17 gennaio1952 da una famiglia dedita all’editoria, viene esposto assai precocemente alla cultura occidentale. Da bambino impara a suonare il pianoforte e presto s’innamora della musica jazz e rock. All’università studia composizione, per poi continuare gli studi approfondendo l’interesse per la musica etnica (con particolare attenzione al folk delle Okinawa). 


All’interesse per la tradizione (musica classica e folk) si aggiunge la curiosità per i suoni sperimentali ed avant-garde dell’elettronica. Infatti nel 1977 forma il trio della Yellow Magic Orchestra, band seminale per l’evoluzione dei vari sottogeneri dell’elettronica, quali synth-pop, cyberpunk, techno, acid house ed ambient. Il suono, in bilico tra krautrock alla Kraftwerk e suoni tipicamente elettro-pop, andranno a definire il classico stile bubblegum del J-pop. Anche il look dissacrante della YMO è quintessenzialmente giapponese, vicino allo stile anime.



Mentre la YMO scala le classifiche giapponesi, come solista Sakamoto continua a dedicarsi alla sperimentazione attraverso la musica elettronica (con sintetizzatori, sequencer, vocoder, drum machine, etc.), etnica e classica. Appare chiaro insomma quanto egli consideri ogni genere musicale come valido e fertile spunto per la sua ricerca, da quello più tradizionale o di nicchia, a quello più kitsch e commerciale. Nel 1980 uno dei suoi pezzi, Riot in Lagos, va ad influenzare artisti americani dell’electro/funk/hip-hop come Afrika Bambaata e Mantronix, contribuendo alla nascita della scena electro-dance. 

       


Nel 1983 recita nei panni del tormentato Capitano Yonoi al fianco di Takeshi Kitano e David Bowie nel film di Oshima Nagisa Furyo (Merry Christmas Mr. Lawrence), di cui ne compone la colonna sonora. Di enorme successo la splendida collaborazione con David Sylvian (della band inglese Japan) per il famosissimo pezzo Forbidden Colors (titolo che fa esplicito riferimento al romanzo di Mishima Yukio, che, come il film stesso, esplora tematiche omosessuali).



Avendo raggiunto la fama internazionale ed il rispetto di musicisti del calibro dei sopracitati Bowie e Sylvian, andrà negli anni a collaborare in varie forme anche con Iggy Pop, David Byrne (Talking Heads), Brian Eno, Karftwerk, Eric Clapton, Brian Wilson (Beach Boys), Madonna, Michael Jackson, Robert Wyatt (Soft Machine), Robbie Robertson (The Band, il gruppo che ha accompagnato Bob Dylan), il Dalai Lama, l’artista avant-garde/musicista Laurie Anderson e l’artista visual koreano-statunitense Nam June Paik, considerato il fondatore della video art. 

(Sakamoto con David Sylvian)

(Sakamoto e Sylvian davanti al muro di Berlino)

La sua carriera in veste di compositore di colonne sonore è ugualmente sbalorditiva. Dopo l’esordio stellare con Furyo, firma la soundtrack, insieme a David Byrne e Cong Su, per il film di Bernardo Bertolucci L’Ultimo Imperatore (1987) tratto dall’autobiografia di Pu Yi, l’ultimo imperatore Qing della Cina. Il film venne girato nell’allora pressoché impenetrabile Città Proibita, e vinse ben 9 Oscar, di cui uno andò proprio a Sakamoto ed ai suoi collaboratori.

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Lavorerà ancora con Bertolucci in Piccolo Buddha e il Tè nel Deserto (Sheltering Sky), e poi con registi come Oliver Stone, Brian De Palma, Pedro Almodovar, John Maybury ed Alejandro G. Iñarritu. In Giappone firmerà gli score per i bellissimi Gohatto, sempre di Oshima (dove ritorna il tema dell’omosessualità), Tony Takitani di Ishikawa Jun (tratto da un racconto di Murakami Haruki) e Living with my Mother di Yamada Yoji.

Nonostante il successo, Sakamoto rimane una persona profondamente modesta, approcciabile ed assetata di collaborazioni artistiche al fine ultimo di sondare nuovi territori. Ma non solo. Come per ogni grande artista, in lui arte e vita si muovono all’unisono e senza distinzioni. 

         


L’approccio squisitamente Zen, laddove fa uso del nonsense, dell’incomprensibile guizzo auto-ironico inaspettato per andare a sdrammatizzare un contesto che potrebbe apparire troppo serioso, pone risalto all’intuizione più che all’intellettualizzazione e, di conseguenza, vive gioiosamente nel momento, nell’here and now. In fondo, l’uso dell’assurdo, del paradossale, è uno dei trucchetti usati dai monaci buddisti Zen per impartire i loro insegnamenti: destabilizzando le nostre percezioni si favorisce l’intuizione spontanea e liberatoria che porta all’autorealizzazione. Al massimo, se si chiede a Sakamoto di contestualizzare il suo approccio, dirà che tutta la musica è folk e che quindi si presta ad analisi antropologica. Tuttavia, invece di teorizzare il suo vasto lavoro, come faceva John Cage, egli preferisce lavorare sul campo, umilmente. 


Sakamoto è noto per la sua avversione nei confronti dell’autoritarismo, per il costante attivismo anti-nucleare, per la posizione contraria alle basi militari americane in Okinawa ed il supporto alla lotta per l’ambiente (nel 2009 organizzò il primo tour mondiale ad emissioni zero).  
Nel 2014 gli fu diagnosticato un tumore alla faringe, dal quale si riprese completamente nel giro di un anno. Lo splendido documentario Coda di Stephen Nomura del 2018 lo segue durante la convalescenza dalla malattia, mentre riprende a lavorare come compositore e durante le proteste anti-nucleari che fecero seguito al disastro di Fukushima-Daichi.

Anche se ha ottenuto, durante la sua eclettica carriera, un Oscar per la Migliore Colonna Sonora Originale, un BAFTA, un Grammy e due Golden Globe, possiamo essere certi che Sakamoto non ne farà mai un vanto. Il fatto che viva da “uomo rinascimentale”, spaziando tra generi musicali e discipline artistiche senza preconcetto alcuno, significa che egli ha compreso la natura effimera delle idee, e quindi l’impermanenza della vita.  




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