Recensione di SENI E UOVA di Mieko Kawakami


 

MIEKO KAWAKAMI

Seni e Uova 

edizioni e/o


Raramente mi è capitato, durante la lettura di un romanzo di fiction, di aver preso pagine su pagine di fitte note: siamo al cospetto di un lavoro di grande importanza.

 

Se qualcuna di noi non ha inizialmente gradito il “placet” dello scrittore alfa (in questo caso niente di meno che Haruki Murakami) collocato sulla copertina color carne, devo ammettere che, una volta giunta all’epilogo del libro, le parole dello scrittore (“Mi ha tolto il fiato”) hanno preso un risvolto ben diverso dal classico altisonante commento in linea con le regole del marketing. Credo infatti che Murakami sia rimasto realmente fortemente abbagliato dalle pagine della Kawakami, perché il contenuto delle 606 pagine di Seni e Uova svela in primis un mondo misterioso che egli non potrà mai comprendere del tutto, proprio in quanto uomo. La giovane scrittrice, devo dire, spesso ne ricorda i soliloqui in stile flusso di coscienza, tenaci tentativi di gettare una fioca luce su tormenti esistenziali scaturiti dalla solitudine dell’essere “altro”. Lei tuttavia parla dell’enorme fetta di umanità, quella femminile, che Murakami ha raramente saputo (o scelto di) delineare con una certa profondità. Forse in Norwegian Wood ed in Q982 vi troviamo i suoi tentativi migliori di entrare dentro ad alcuni dei suoi personaggi femminili, ma restano pur sempre poco delineati nella loro psicologia. Tutto viene presentato, inevitabilmente, dalla prospettiva dell’uomo, dove la donna è l’essere sessuale bramato o utilizzato. Colui che ha scosso le fondamenta della letteratura giapponese, anch’essa rigida nel suo conformismo sino a pochi decenni fa, oggi non può che perdere il fiato davanti ad un lavoro che sbatte in faccia l’epopea delle donne moderne del Giappone. Donne sessuali si, ma non in funzione dell’uomo. 


Sono innanzitutto donne VERE, lontane anni luce da quegli strati di cerone bianco, rossetti violentemente rossi, tratti pesanti di matite nere e parrucche elaborate che ne alterano il volto (non sono forse le geishe spessi definite come splendide bambole di porcellana?), sino a rendendolo sovrapponibile a quello di un uomo (si pensi al la tradizione del teatro Noh). Sono donne (tranne una, proveniente da famiglia privilegiata, che sceglie di dedicare la vita esclusivamente alla carriera a discapito degli affetti) che non hanno mai conosciuto il tocco della seta sulla pelle, ma si sono sempre vestite di semplici stracci o comunque abiti provenienti dai saldi di supermercati da poco. La Kawakami insomma presenta una donna contemporanea giapponese che nulla ha che vedere con l’immaginazione dell’uomo arrapato, del gaijin in preda all’illusione dell’erotismo esotico, e tantomeno con quella istituzionalizzata di madre e moglie perfetta. La geisha, quella che appare dolce e sognante nelle splendide stampe dei celebrati artisti (uomini) giapponesi, ed ora nelle suggestive fotografie che spopolano sino alla nausea sui social, non è che un mito proposto da un marketing di successo atto a mostrare all’occidente il volto gentile, sottomesso ed inequivocabilmente bello del Giappone post-bellico. I netizens (cittadini del web) hanno largamente sposato il mito della geisha non-prostituta, bensì femmina affasciante che intrattiene clienti con musica, canto, poesia e la cerimonia del tè. Le poche geishe che restano oggi (è assai meno impegnativo fare la hostess in abiti moderni, evitando tirocini durissimi e sacrifici fisici e personali non indifferenti) coprono in realtà un ruolo controverso, che le donne emancipate giapponesi rifiutano con disperazione.






In Giappone, la donna ha sempre avuto il ruolo di schiava dell’uomo, poco importava la classe sociale. Sin da bambina era di norma soggetta al dominio violento del padre, al matrimonio imposto, all’esser venduta a Case del Tè e bordelli per pochi soldi. Insomma, era costretta all’obbedienza totale nei confronti dell’uomo: padre, marito, fratello, cliente che fosse. La geisha di alto bordo, dotata di particolare bellezza e personalità scaltra/accattivante, era a tutti gli effetti una donna che recitava una parte (tanto conturbante quanto teatrale) al fine di ottenere il privilegio di essere mantenuta da ricchi ed aristocratici. Le centinaia di migliaia di geishe di poco conto, invece, vivevano una vita assai meno scintillante: vendevano il proprio corpo in cambio della sopravvivenza, sognando di incontrare un cliente che s’innamorasse di loro ed avesse sufficienti fondi per riscattarla. I suicidi tra le geishe più sfortunate non erano infrequenti, o per amore o per la pressione del vivere una vita da schiava. Che questo ruolo davvero terribile ed umiliante possa oggi far sognare il mondo intero, stupisce davvero, ma si sa che l’essere umano possiede la capacità di credere con cieco entusiasmo alle deformazioni storiche (frutto dell’ideologia) più sfacciate.


Una delle ideologie che accomuna il mondo intero (con sfumature diverse, migliori o peggiori) permanendo nei secoli, è quella del patriarcato. Sin da ragazzina mi sono spremuta le meningi per comprendere perché il maschio tema tanto la donna da assoggettarla e prevaricarla in mille maniere, sia con le buone che con le cattive. Con l’esperienza sono lentamente giunta a delle conclusioni, e devo dire che questo libro sembra assecondare le mie teorie, che per ora resteranno avvolte nel segreto per non spoilerare il contenuto del romanzo in questione. Tornando a Seni e Uova, troviamo una storia al femminile che attraversa 3 generazioni, ed alcune di esse fanno proprio il caro vecchio mestiere delle donne giapponesi che faticano a sbarcare il lunario: quello della hostess.


La protagonista del romanzo, Natsu (estate), cresce in bar dove madre e sorella accudiscono a uomini per indurli spendere il più possibile facendo le carine, le allegre, le civette. Non si tratta di donne belle, talvolta nemmeno giovani, bensì di donne povere. Senza un marito od un partner, mantengono se stesse e le figlie consumando da sole la propria gioventù. Il nocciolo della questione è sicuramente la povertà, considera Natsu, il cui padre scomparve nel nulla e che, a 30 anni, si trova sola in una Tokyo che rifulge di ricchezza, ma non per lei. Natsu ha un sogno: quello di diventare una scrittrice. Per lei, quella "intelligente" della famiglia, il mestiere di hostess da bar (bettole comprese), sicuramente uno dei più gettonati dalle studentesse che faticano a pagarsi gli studi (pare incredibile che in un paese tanto ricco e ritenuto all’avanguardia, gli studi non siano gratuiti!) e dalle donne single che devono mantenere dei figli, quella “intelligente” della famiglia, non è più un ripiego necessario. Eppure la vita nella metropoli presenta a lei ed alle donne che fanno parte della sua vita, situazioni difficili e drammatiche. La Kawakami ci fa annusare una società priva di raffinate/allegre patine posticce, in cui lo stress da produttività, la pressione al conformismo e la solitudine endemica producono il più alto numero di suicidi tra le società industrializzate, la progressiva calante fertilità dell’uomo e la forte tendenza a restare single ed a non procreare. Ed ecco giungere di prepotenza il dilemma della protagonista: quello se procreare o meno. 






In quando donna, Natsu sa di essere fisicamente fornita di tutto quanto necessiti per creare la vita. Non siamo noi donne a farlo, attraverso la nostra carne, il nostro sangue ed il nostro dolore? Certo, l’uomo ci mette il seme che va a fecondare le nostre uova, ma il suo contributo non resta forse nell'atto di penetrarci ed ottenere piacere fisico e psicologico? Ecco che l’immagine della femmina, inferiore, sudicia, immonda in quanto soggetta a ciclo mestruale (come indica la tradizione buddista, in particolare modo quella giapponese) - oppure lussuriosa e peccatrice per voler provare piacere anche qualora non desiderosa di procreare (qui passiamo all’ottica altrettanto tossica giudeo-cristiana), si rivela poco a poco come il vero portento della Natura per come ella sappia creare, nutrire, insegnare, difendere e lottare, da sola. Solo ristabilendo, a fatica, con dolore, il proprio equilibrio psicologico e rivendicando il proprio ruolo in una società ostile, ma che inesorabilmente si avvia al cambiamento, nonostante la tenacia delle forze reazionarie che vi hanno tenuto banco per secoli, Natsu sarà in grado di trovare il baricentro della propria vita in quanto donna indipendente.


La sorella e la nipote di Natsu (che rappresenta la generazione del cambiamento armonico), insieme ad altre figure femminili (colleghe ed amiche effimere) ravvivano questo splendido libro, meditando a modo loro su cosa significhi essere donna oggi, fornendoci un caleidoscopio di pensieri, sensazioni, emozioni fortissime contrastanti. Se da un lato la prospettiva è quella della condizione della donna in Giappone, dall’altro, in quanto femmine che devono fare i conti con mentalità maschiliste di lunga tradizione, ci si ritrova proprio tutte. 

La Kawakami, parlando di assorbenti e mutandine macchiati di sangue (cosa che nel pudico Giappone buddista ha un significato davvero forte) estirpa quella condiscendente, falsa “realtà” da pubblicità di pannolini e detergenti intimi, presentando invece la donna come complesso essere biologico, carnale e psicologico, assolutamente fuori dal mito (piacevole o meno) di fatale seduttrice o dall'immagine della femminista a tutti i costi che finisce di scimmiottare gli atteggiamenti e le angherie degli uomini. 

Anche in una realtà occidentale leggermente meno misogina (almeno sotto certi aspetti) le immagini rosa-carne di Seni e Uova risultano forti e pregne di significato. Una scrittrice donna (sposata e con un figlio), che pur non rinuncia ad un'immagine di sé decisamente "classica" con quel suo caschetto così franco-nipponico, finalmente partorisce un romanzo che spalanca porte nuove da cui si può finalmente cercare un’armonia tra i sessi (in tutte le loro sfumature) basata su di un sincero rispetto reciproco. 

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